a questi paesi e vallate, intorno a queste montagne il Piemonte guarda a un’alluvione che «poteva andare peggio». Qui, davanti e dentro al Tempio Valdese di Torre Pellice il silenzio di due o tremila persone, i negozi e i bar chiusi con l’ordinanza del lutto cittadino, le giacche dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Alpino, della Protezione civile che reggono tre bare sono il fermo immagine del disastro.Da una parte le cifre: soltanto quattro vittime. Dall’altra l’incredulità: quattro vittime. Tre di una stessa famiglia: Annik, la bimbetta, la madre Erika, il nonno Carlo. E nel primo banco del tempio il padre Luciano, che si è visto portare via l’intera famiglia dal fango. Sotto questa pioggia, davanti a questa gente sul sagrato non c’è spazio per la consolazione nazionale: poteva andare peggio. Non poteva andare peggio di così, recita il silenzio.Recitano preghiere sacre e parole concrete i tre pastori, Marcello Salvaggio, Claudio Pasquet, Bruno Gabrielli. «Se siamo qui è perché la morte ci è venuta incontro». Leggono i Salmi, il Vangelo di Giovanni, fanno aleggiare «Dio rifugio e forza», cercano di sgominare la parola «addio», ricordando che «la natura soffre e provoca sofferenza».C’è l’uomo, ci sono la donna, l’infanzia al centro di questa cerimonia senza infingimenti: «Non è vero che finché c’è vita c’è speranza. Arriva la morte. È arrivata. E l’unica cosa che ti tiene in vita è l’amore». Si rivolgono, i pastori, a Luciano, il papà rimasto senza passato e presente degli affetti, portati via dalla frana con Annik. Ha con sé il resto del presente, dove rifondare tutto, gli altri tre figli, lentamente citati per nome, Mistral, Cedric, Magalì.Di questa famiglia parla Maria Bonafede, moderatrice della Tavola Valdese, che lascia parole di cuore. Stanno tra i sindaci con la fascia tricolore («funerale privato» hanno detto ai fotografi) la presidente della Regione, Mercedes Bresso, e quello della Provincia, Antonio Saitta. È tutto per i Vigili del Fuoco, per i volontari che piangono chi non hanno fatto in tempo a salvare, il rispetto della folla. «Il male è ugualitario», dicono dal tempio, «nella vita c’è dolore ma la vita non è solo dolore». E loro sono lì, ritti nelle divise davanti alla bara bianca con i fiori bianchi, con il dolore profondo, vero, massacrante di chi non ha fatto in tempo. Ora sono i custodi di quella tragedia di cui parlano i pastori, sono gli accompagnatori che avrebbero voluto fare un altro viaggio, come i tanti che hanno fatto avanti e indietro portando via gente dal fango.Una cittadina deserta, l’ordinanza del lutto cittadino affissa alle serrande. Una famiglia attonita davanti al tempio: «Avevamo pensato di prendere in affitto noi quella casa». E il popolo dei soccorritori: si guardano sgomenti, posano occhi colmi di fatica sulle bare cui rendono l’omaggio di un incolpevole, inesistente fallimento.«Siete nel dolore, ma ci rivedremo. Ho vinto il mondo», dice una delle letture sacre. Ma qui si prega, si portano via tre corpi, una famiglia vinta da una natura inattesa che, vista dal mondo delle cifre, dei conteggi, è una alluvione finita tutto sommato bene. Vista da questa folla e da questo tempio è il simbolo di un disastro. La piccola Annik e i suoi pupazzi fotografati fra le rovine sono la sofferenza di cui parlano i tre pastori.Non dimenticano Marius Vasile Urzicai, anche lui ucciso dalla frana mentre era sulla sua auto. La bara è partita per la Romania. Ma da qui lo salutano. Dana avrebbe dovuto sposarlo fra tre mesi. Ora lo riaccompagna a Dorohoi.«Ci ricordi la croce. Vedremo la risurrezione». Va via così la bara bianca, con quella di mamma e del nonno. Nel camposanto non lontano dal fiume che ha raccolto quel che il disastro ha lasciato andare giù dopo aver spazzato via la loro casa. ---(Marco N & Antonio G)
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